I rifiuti urbani (e assimilabili) tra direttive comunitarie e ritorni al passato

3 Luglio 2020

La questione dell’assimilazione dei rifiuti speciali ai rifiuti urbani è da tempo oggetto di critiche, sia da parte dei produttori dei rifiuti, sia da parte dei gestori dei rifiuti operanti nel libero mercato.

La novità introdotta dalla Direttiva europea n. 851/2018 (in corso di recepimento da parte dell’Italia) è la nuova definizione di “rifiuti urbani”.

La Direttiva n. 851 modifica la definizione di “rifiuti urbani” come “rifiuti domestici” indifferenziati e rifiuti da raccolta differenziata, ivi compresi carta e cartone, vetro, metalli, plastica, rifiuti organici, legno, tessili, imballaggi, rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, rifiuti di pile e accumulatori, e rifiuti ingombranti, ivi compresi materassi e mobili; rifiuti indifferenziati e da raccolta differenziata provenienti da altre fonti che sono simili per “natura e composizione” a quelli prodotti dalle famiglie.

La nuova definizione è stata recepita dal testo approvato dal governo il 5 marzo ed inviato in Parlamento per i previsti pareri.

Secondo lo stesso sono considerati rifiuti urbani, anche i rifiuti indifferenziati e da raccolta differenziata provenienti da altre fonti indicati nell’allegato L-quater Elenco dei rifiuti assimilabili e prodotti dalle attività riportate nell’allegato L-quinquies “Elenco delle attività che producono rifiuti assimilabili” ex art. 184, comma 2, lett. B, tuttavia, senza alcuna indicazione di valori soglia per quantità.
Tra questi rientrano anche quelli prodotti da attività artigianali e industriali (compresi i magazzini di produzione) e le “Attività industriali con capannoni di produzione”.

Non c’è male come estensione del concetto di rifiuto urbano!

Secondo alcune autorevoli stime il nuovo provvedimento genererebbe un aumento dei rifiuti urbani, pari a diversi milioni di tonnellate e potrebbe produrre effetti importanti per un “bilanciamento” della tariffa rifiuti fra utenti domestici e non domestici.

La questione dell’Assimilazione dei rifiuti speciali ai rifiuti urbani, ai fini della gestione delle raccolte e dello smaltimento in privativa, con conseguente attribuzione del servizio al gestore del servizio pubblico, è da tempo oggetto di critiche, sia da parte dei produttori dei rifiuti, sia da parte dei gestori dei rifiuti operanti nel libero mercato.

Nel passato l’Antitrust è stato ben attento a ricordare l’importanza di salvaguardare il mercato per gli operatori privati.

Sia il Decreto Ronchi, sia il successivo Testo Unico Ambientale, il D.lgs 152/2006, all’articolo 195, comma 2, lettera e), attribuivano allo Stato la competenza di determinare i criteri per l’assimilazione dei rifiuti speciali non pericolosi ai rifiuti urbani, ai fini della raccolta e dello smaltimento, nel cui rispetto, i Comuni devono provvedere a disciplinare le modalità per l’assimilazione, per quantità e qualità.

Nelle more della completa attuazione delle disposizioni del Testo Unico Ambientale hanno continuato ad applicarsi le norme regolamentari e tecniche (comunali), cristallizzando così una discrezionalità in capo ai Comuni che continuano ad assimilare i rifiuti speciali agli urbani, ampliando di fatto le aree aziendali soggette a tassa/tariffa.

Addirittura il giudice amministrativo, su ricorso di un’azienda, concedeva 120 giorni al ministero dell’Ambiente, di concerto con il ministero dello Sviluppo economico, per l’adozione dell’indicato decreto.

In verità anche nei criteri di delega dell’art. 16 della Legge n. 117/2019 si prevede di riformare il sistema delle definizioni e delle classificazioni e di modificare la disciplina dell’assimilazione dei rifiuti speciali ai rifiuti urbani in modo tale da garantire uniformità sul piano nazionale.

A tutt’oggi non si è ancora giunti alla definizione dei criteri di assimilazione, mentre in Parlamento arriva una proposta che può ampliare a dismisura il concetto di rifiuto urbano.

Effetto collaterale di una più ampia operazione di modernizzazione della normativa in materia di rifiuti?

C’è da pensare che sia questo il caso e che il Parlamento e, poi, il governo possano “rimediare” in maniera semplice e chiara.

Occorre introdurre dei criteri, banalmente anche solo di metratura, per cui le superfici superiori ai 400 mq sono escluse dall’assimilazione e, quindi, dall’applicazione della tariffa rifiuti.

Includere, come prevede il testo in discussione, tra i rifiuti urbani, anche quelli prodotti da attività artigianali e industriali (compresi i magazzini di produzione) e le “Attività industriali con capannoni di produzione” non può essere né una modernizzazione, né un recepimento, ma piuttosto è un ritorno al passato.

Come sarebbero un ritorno al passato, i contenziosi davanti alle Commissioni Tributarie per sancire l’esclusione dei rifiuti speciali dall’ambito della privativa comunale e dell’assimilazione.

[fonte: formiche.net]