Il Covid-19 ha fatto crescere la plastica usa e getta.

28 Luglio 2020

Unctad: «Meno inquinamento, più posti di lavoro». Come le politiche commerciali globali possono aiutare a risolvere il problema

Secondo l’United Nations conferenze on trade and devlopment (Unctad), i lockdown per il coronavirus imposti in tutto il mondo hanno portato a un calo del 5% delle emissioni di gas serra, ma la pandemia di Covoid-19 ha provocato un aumento dell’inquinamento dovuto alle mascherine usa e getta contenenti plastica, ai guanti e ai flaconi dei disinfettanti per le mani e imballaggi per alimenti.

Strade, spiagge e oceani sono stati invasi da una marea di rifiuti da Covid-19 e Pamela Coke-Hamilton, direttrice per il commercio internazionale dell’Unctad sottolinea che «L’inquinamento da plastica era già una delle più grandi minacce per la nostra salute prima della comparsa del coronavirus. L’esplosione improvvisa dell’utilizzo quotidiano di prodotti per garantire la sicurezza delle persone e frenare la malattia aggrava ancora le cose».

Secondo l’agenzia di business consulting Grand View Research, nel mondo, la vendita di mascherine usa e getta è passata da un ammontare di 800 milioni di dollari nel 2019 a 166 miliardi di dollari nel 2020. Ma L’Unctad avverte che si tratta solo di una parte della storia. «Il distanziamento sociale ha anche comportato un afflusso di prodotti consegnati quotidianamente a domicilio – imballati in una pletora di imballaggi – mentre la gente si rivolge agli acquisti on-line e ai servizi di asporto. I rifiuti plastici che ne risultano sono enormi».

L’agenzia Onu fa l’esempio di Singapore, dove, durante le 8 settimane di confinamento terminate il primo giugno, à i  5,7 milioni di abitanti della città-Stato insulare hanno gettato via 1.470 tonnellate in più di rifiuti plastici provenienti dai soli imballaggi del cibo da asporto.

Secondo i dati raccolti dall’Unctad, circa il 75% delle materie plastiche dei prodotti legati alla gestione del coronavirus rischiano di diventare spazzatura ingombrando che ingolfa le discariche e finisce alla deriva nei nostri mari. E i costi sono sconcertanti: ad esempio, per l’United Nations environment programme l’impatto negativo dei rifiuti di plastica sulla pesca, sul turismo e sulla navigazione ammonta a circa 40 miliardi di dollari all’anno.

Ma l’Unctad ricorda anche che «La plastica viene utilizzata in innumerevoli prodotti che vengono scambiati quotidianamente a livello internazionale, dalle automobili e dai giocattoli agli elettrodomestici. Anche i prodotti che non contengono plastica, come mele o barrette di cioccolato, vengono spediti ogni anno in milioni di tonnellate di imballaggi in plastica» e, presentando alla commissione per il commercio e l’ambiente dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) la “Coommunication on trade in plastics, sustainability and devlopment” pubblicata dall’Unctad il 3 luglio,  la Coke-Hamilton. fa notare che «La produzione e il consumo di materie plastiche costituiscono un sistema globale che riveste numerose dimensioni commerciali. Ma l’importante ruolo che le politiche commerciali globali potrebbero svolgere nella lotta all’inquinamento da plastica non ha ricevuto l’attenzione che merita. Il numero di misure commerciali che menzionano la plastica – come regolamenti tecnici, sussidi, licenze e divieti – registrato presso la  Wto  è cresciuto del 28% ogni anno negli ultimi 10 anni, indicando preoccupazione crescente dei membri di questa organizzazione. Ma, alla fine, la mancanza di coordinamento delle politiche commerciali adottate dai Paesi nella loro lotta contro l’inquinamento da plastica ha limitato l’efficacia dei loro sforzi. Ci sono limiti a ciò che un paese può  realizzare da solo. Le 164 economie in via di sviluppo e sviluppate che compongono la Wto hanno la capacità di elaborare regole commerciali multilaterali che potrebbero affrontare in modo più efficace le questioni fondamentali legate all’economia mondiale delle materie plastiche».

Oltre a regolamentare la produzione e il consumo di plastica, l’Unctad sollecita i governi e le imprese a identificare sostituti della plastica tra materiali che non siano combustibili non fossili: «L’elenco di materiali atossici, biodegradabili o facilmente riciclabili che potrebbero sostituire la plastica comprende molti materiali noti come vetro, ceramica, fibre naturali, carta, cartone, lolla di riso, gomma naturale e proteine ​​animali. Con i Paesi in via di sviluppo che sono i principali fornitori di molti sostituti della plastica, la crescente domanda globale potrebbe offrire loro opportunità di investimento più ecologiche e nuove opportunità commerciali«. Ad esempio, i Paesi in via di sviluppo forniscono il 92% della iuta mondiale, con in testa Bangladesh (74%) e India (9%). E questi Pesi nel 2019 hanno anche rappresentato il 94% delle esportazioni globali di gomma naturale, guidati da Thailandia (31,5%), Indonesia (30%) e Costa d’Avorio (8,5%). Ma i Paesi in via di sviluppo hanno un grande interesse per l’economia globale delle materie plastiche. La loro quota nella produzione complessiva di plastica è aumentata dal 43,5% nel 2009 al 58% nel 2018. E due posti di lavoro  su tre nel settore manifatturiero della plastica sono nei Paesi del sud del mondo.

La Coke-Hamilton  conclude: «Poiché anche molti sostituti della plastica richiedono molta manodopera, i cambiamenti nei modelli di produzione e consumo potrebbero creare nuovi posti di lavoro».

[fonte: greenreport.it]