Rifiuti, si fa presto a dire bio

25 Novembre 2020

Tutta la verità sulla biodegradabilità dei materiali creati per inquinare meno l’ambiente. L’esperto: “Il compostabile è biodegradabile, ma non è detto che il biodegradabile sia compostabile”

Si fa presto a dire biodegradabile. In realtà il fatto che un prodotto sia etichettato come tale non è sufficiente a garantire che non inquinerà l’ambiente, anzi a volte proprio quell’etichetta può indurre i consumatori a comportamenti sbagliati, che hanno come effetto un aumento, invece di una diminuzione, dell’inquinamento ambientale.

Cos’è il PLA e come si smaltisce. Un esempio è quello che può succedere con una delle bioplastiche più usate, il PLA (acido polilattico, viene ottenuto trasformando gli zuccheri presenti nel mais, nella barbabietola e nella canna da zucchero).

“Se lei ha una bottiglia in PLA e la scambia per una normale bottiglia di plastica non bio, probabilmente la butterà nel cassonetto differenziato della plastica. Ma questo è un errore: il PLA è biodegradabile e quindi a rigor di logica andrebbe nel cassonetto dei rifiuti organici” spiega Maria Cristina Lavagnolo, docente di ingegneria ambientale all’Università di Padova. “Anche se lei buttasse la sua bottiglia in PLA nell’umido, comunque, potrebbero sorgere problemi: magari chi viene a raccogliere l’organico nota la bottiglia di plastica e pensa che sia fuori posto, così la raccoglie e la mette, sbagliando, nel cassonetto della plastica”.

La bottiglia di plastica rigenerata: come funziona il riciclo

Se invece il PLA viene erroneamente gettato nell’indifferenziato e finisce in discarica, potrà rimanerci a lungo perché in discarica mancano le condizioni per la biodegradazione tipiche degli impianti di riciclo e compostaggio. Un altro problema tipico è quello dei contenitori di carta per alimenti liquidi, come il latte o i succhi di frutta: è vero che il rivestimento esterno è in carta, ma le proprietà impermeabilizzanti necessarie all’interno rendono indispensabile l’uso di un foglio di plastica. Quindi il consumatore più ecologicamente sensibile dovrebbe separare lo strato esterno di carta e quello interno di plastica prima di recarsi al cassonetto, cosa che però ben pochi fanno.
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C’è bioplastica, e bioplastica. Una confusione tipica è quella che i consumatori possono fare tra i termini bioplastica e biodegradabile. “Bioplastica non vuol dire di per sé biodegradabile. Esistono bioplastiche come il biopolietlene in cui con il prefisso bio indica l’origine biologica e non la biodegradabilità” spiega Edoardo Puglisi, professore di microbiologia all’Università Cattolica. “Il biopolietilene viene sintetizzato partendo dall’etilene ricavato da materiali vegetali. La sua origine è bio, ma noi sappiamo bene che le proprietà chimiche di una sostanza dipendono dalla sua struttura e dalla sua composizione, e non dalla sua origine: il biopolietilene è un polietilene a tutti gli effetti, e quindi non è biodegradabile”.

Biodegradabile o compostabile? Un’altra cosa che può sfuggire è la differenza tra biodegradabile e compostabile. “Il compostabile è biodegradabile, ma non è detto che il biodegradabile sia compostabile” spiega Lavagnolo. “Biodegradabile significa soltanto che quel materiale può essere trasformato in CO2 attraverso i processi metabolici dei microbi. Se lascio una sostanza organica all’aperto, si biodegrada ma non ottengo un compost”. Per il compost serve un processo di maturazione particolare che ha come risultato dei composti “umici” che possono arricchire di nutrienti i suoli agricoli.

“Un prodotto viene definito biodegradabile se entro 60-90 giorni si degrada, questo considerando i tempi lunghi delle discariche. Ma se consideriamo il riciclo dei rifiuti all’interno dei sistemi di digestione anaerobica e compostaggio, per ragioni di efficienza i tempi si riducono a 30 giorni o anche meno. E accorciando i tempi c’è il rischio che le plastiche biodegradabili non siano totalmente biodegradate” spiega Pier Sandro Cocconcelli, professore di microbiologia degli alimenti all’Università Cattolica.

“Inoltre, il livello di biodegradabilità è differente in funzione del tipo di plastica: le bioplastiche che derivano dagli amidi, proprio perché l’amido è un composto facilmente degradabile, vengono attaccate dai microbi più rapidamente di altre, come ad esempio le bioplastiche in acido polilattico (il PLA), che è richiede più tempo per biodegradarsi. Contano anche la dimensione e la struttura della plastica: le sottili pellicole come quelle che formano i sacchetti del rifiuto umido sono più facili da degradare, perché sono più facilmente attaccabili dai microrganismi, rispetto a un oggetto più spesso e rigido come una forchetta di plastica”.

Sul PLA è stata fatta una recente ricerca che evidenzia una biodegradabilità non totale. “Abbiamo ricostruito in laboratorio – su piccola scala, quindi prima di trare conclusioni più generali occorrono altri studi – le condizioni che riflettono quelle degli impianti di trattamento rifiuti, e abbiamo verificato che mentre i sacchetti di bioplastica derivata da amido non danno particolari, problemi, nel caso dell’acido polilattico sono rimasti dei residui” osserva Puglisi.

Cos’è il PHA. Una bioplastica promettente dal punto di vista ecologico ma ancora non adatta all’uso di massa è il PHA. “Il PHA è un materiale sintetizzato dai microrganismi, che lo producono per avere una riserva di carbonio disponibile quando mancano altri nutrienti. Siccome questi microrganismi hanno i geni per sintetizzare questa riserva, hanno anche i geni per degradarla: ecco perché il PHA è totalmente biodegradabile. Ed è anche biocompatibile, perché completamente biologico” spiega Puglisi. “Il problema è che il PHA ha un costo ancora troppo alto, non è competitivo con il polietilene derivato dal petrolio. Può avere delle applicazioni di livello avanzato, ad esempio nei biomedicali, dove subentrano altre considerazioni oltre al costo”. Ma per il largo uso, oggi sono più convenienti le bioplastiche basate su amido o il PLA. “È molto più facile ed economico far crescere del mais e ricavarne una biomassa di amido, piuttosto che far sviluppare i microrganismi per produrre PHA” spiega Cocconcelli. “I PHA però possono essere usati per composti ad alto valore aggiunto, ad esempio plastiche biodegradabili che vanno inserite nel corpo umano e poi devono farsi assorbire e biodegradare senza problemi”.

Il termine giusto. La cosa importante per non perdere la bussola nel mondo del riciclo dei rifiuti è la chiarezza terminologica. E mantenere il dubbio: ad esempio, di per sé, la parola biodegradabile non significa per forza che l’oggetto in questione sia amico dell’ambiente in tutte le condizioni. “Se io butto in acqua della sostanza biodegradabile, i microbi che la degradano consumeranno ossigeno, e questo, se le quantità di rifiuto organico che finisce in acqua sono ingenti, può depauperare quell’ecosistema di ossigeno” spiega Lavagnolo. “Tanto è vero che nei corsi d’acqua dove le fognature scaricano sostanza organica, si verificano fenomeni di anossia”.


fonte: repubblica.it