L’economia circolare, ma con la mascherina!
12 Maggio 2020
Abbiamo più volte raccontato le difficoltà, ma anche i successi ottenuti da molti comuni e consorzi impegnati nel tentativo d’inseguire un’economia il più possibile circolare anche grazie al delicato compito del riciclo dei rifiuti. Tra questi successi c’è quello del Consorzio italiano compostatori (Cic) che nel 2020 non si è mai fermato, nonostante la pandemia e che nel corso del 2018, secondo i dati diffusi rielaborando gli ultimi report dell’Ispra, ha raccolto in Italia 7,1 milioni le tonnellate di rifiuti organici tra umido, verde e altre matrici organiche provenienti dalla raccolta differenziata. “Le stime di crescita ci portano a traguardare per il 2025 quota 9.200.000 tonnellate di rifiuto organico raccolto in Italia, ovvero più di 150 Kg per abitante all’anno – ha spiegato Massimo Centemero, direttore del Cic -. Per questo è fondamentale continuare a lavorare soprattutto nelle regioni del Centro e del Sud”. Raccogliere i rifiuti, infatti, non basta se poi sul territorio non ci sono impianti in grado di gestirli secondo una logica di sostenibilità e prossimità.
Ad oggi il riciclo dei rifiuti organici è affidato a 339 impianti di trattamento biologico: 281 sono impianti di compostaggio e 58 sono gli impianti integrati di digestione anaerobica e compostaggio, che nel 2018 sono arrivati a trattare più del 50% della frazione umida proveniente dalla raccolta differenziata. Un numero importante, ma non sufficiente, soprattutto perché la loro distribuzione sul territorio nazionale è profondamente diseguale. Dei 281 impianti di compostaggio che producono compost, infatti, 173 sono dislocati al Nord, solo 46 al Centro e 62 nel Sud e nelle Isole. Anche guardando ai 58 impianti di digestione anaerobica e compostaggio, 47 strutture si trovano nel Nord Italia, mentre se ne contano solo 4 al Centro e 7 in tutto tra Sud e Isole. Per Centemero la concentrazione geografica degli impianti soprattutto nel Nord Italia rappresenta una criticità del sistema: “Uno squilibrio che finora ha retto perché l’Italia non è mai andata in emergenza per questa tipologia di rifiuti, ma che costringe il Centro, le Isole e il Sud Italia a trasferire i propri rifiuti organici in altre regioni, con enormi spese per il sistema paese”.
Secondo il Cic “oltre il 35% del deficit nazionale di impianti a regime si concentra tra Lazio, Campania, Sicilia e Puglia” e “Nella prospettiva di una gestione regionale del rifiuto raccolto, il deficit a regime delle regioni del Centro-Sud è drammatico: oltre il 700% in Campania, quasi il 500% nel Lazio, e il 200% in Sicilia e Marche”. Eppure con una penetrazione più capillare di questi impianti a guadagnarci non sarebbe “solo” l’ambiente, ma anche il lavoro: nel 2018, secondo le proiezioni del Cic, il volume d’affari generato dal comparto è stato pari a 1,9 miliardi di euro di fatturato, mentre i posti di lavoro generati sono stati 10.620, un +8% rispetto al 2016. In pratica 1,5 posti di lavoro ogni 1.000 tonnellate di rifiuto organico e con una raccolta differenziata ancora più capillare in tutta Italia si potrebbe arrivare a 13.000 addetti e 2,5 miliardi di euro di indotto generato. Dati che fanno onore a questa filiera al pari di quella dedicata ai rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, i così detti Raee, che nel 2019 hanno toccato le 343.069 tonnellate sull’intero territorio nazionale, quasi 32.460 tonnellate in più rispetto al 2018: “un incremento del 10,45% rispetto al 2018, in assoluto la crescita migliore dal 2014″, come testimonia l’ultimo rapporto annuale del Centro di coordinamento Raee.
A differenza di quanto è accaduto con i rifiuti organici, in questo settore negli anni si è ampliata anche la rete infrastrutturale ricettiva attiva sul territorio nazionale, che oggi comprende 4.367 centri di raccolta comunali per il corretto conferimento dei Raee. Nord, Centro, Sud e Isole hanno tutti rafforzano i quantitativi di raccolta complessiva rispetto al 2018, seppur con trend differenti, tra le diverse aree territoriali. Anche in questo settore, infatti, il gap dell’area Sud e Isole con il resto d’Italia rimane evidente e riconferma il fatto che, nonostante sia in crescita, “la raccolta in queste regioni dovrà procedere a ritmi più sostenuti nel prossimo futuro”. Il trend però fa ben sperare, sono infatti il Sud e le Isole a registrare la maggiore crescita nella raccolta a livello di aree e la miglior performance nell’incremento della raccolta a livello nazionale. Per Bruno Rebolini, neo presidente del Centro di coordinamento Raee, “Nonostante il cammino fin qui intrapreso e i molti risultati positivi conseguiti, la strada per raggiungere gli sfidanti target imposti dall’Unione europea continua a essere lunga e con molti ostacoli”. Un po’ come il futuro del riciclo dei presidi utilizzati dalla popolazione per fronteggiare l’emergenza Covid-19. Al momento, infatti, le indicazioni del Governo sono di gettare i dispositivi di protezione individuale (dpi), mascherine e guanti, nella raccolta dell’indifferenziato, da inviare prioritariamente al recupero energetico così da garantirne la sterilizzazione.
Si tratta di una soluzione che nel breve periodo e nel pieno dell’emergenza è sembrata inevitabile per scongiurare qualsiasi rischio di ulteriori contagi, pur sapendo che in Italia esiste una penuria di impianti di incenerimento e che in prospettiva, visto il perdurare dell’emergenza, è indispensabile trovare delle soluzioni più sostenibili se non vogliamo trovare, appena si potrà tornare al mare, spiagge invase anche dalle mascherine, oltre che dalle plastiche. Attualmente dal punto di vista normativo i guanti non sono imballaggi e non possono essere smaltiti attraverso la raccolta differenziata della plastica, mentre le mascherine, per essere minimamente efficaci, dovrebbero essere usa e getta. Difficilmente anche i modelli più evoluti, lavabili e riutilizzabili, possono attualmente garantire la stessa protezione. Calcolando che solo in Italia siamo quasi 60 milioni, in teoria durante questa “Fase 2” potremmo aver bisogno di circa 30-40 milioni di mascherine al giorno, il che ci deve far pensare ad una soluzione circolare anche per il riciclo dei dpi, che non comporti rischi per gli operatori che vengono a contatto con questi rifiuti.
Se oggi e per fortuna molte aziende stanno fabbricando mascherine, la politica, invece di occuparsi di abolire la plastic tax, dovrebbe iniziare ad indirizzare la produzione su mascherine più sostenibili. Occorre sia stimolare la riusabilità, studiando soluzioni e filati che mantengano la loro funzione protettiva a distanza nel tempo, sia preoccuparsi del riciclo e capire come inserirle in un’economia circolare. Attualmente la maggior parte di questi presidi sono fatti di polipropilene, un tipo di polimero facilmente riciclabile, spesso però associato a strati di polietilene, poliestere, pet polyammide… Una moltitudine difficilmente riciclabile che andrebbe urgentemente regolata. L’ideale sarebbe obbligare al più presto le aziende a produrre solo mascherine fatte con un solo polimero o al limite con due, come polipropilene e polietilene, la cui industria del riciclo è già consolidata. Ovviamente poi mancherebbe una deroga per la gestione differenziata delle mascherine, che non sono imballaggi e identiche soluzioni per i guanti. Non è impossibile per l’industria. Lo sarà per la politica?
[fonte: unimondo.org]